CRISTINA ROSSELLO E IL DIRITTO DI FAMIGLIA: LE LINEE GUIDA IN 6 PUNTATE (1a)

Iniziamo oggi con il primo intervento dell'Avvocato On.le Cristina Rossello ( ne seguiranno altri fino al 31 ottobre). Ciò costituisce una vera e propria agenda "Diritto di Famiglia: Le linee guida in 8 puntate" che viene qui messa a disposizione grazie all' esperienza professionale e ampiamente specialistica maturata da Cristina Rossello

Cristina Rossello, Avvocata patrimonialista e fondatrice di Rossello Family Office ci introduce il tema del Diritto di Famiglia e le implicazioni in caso di passaggio generazionale in caso di Impresa: «Dal matrimonio alle legislazioni sul “dopo di noi”, i punti centrali del diritto di famiglia sull’impresa familiare. Le norme all’esame del parlamento».

Primo appuntamento:

Cristina Rossello
Avv. On.le CRISTINA ROSSELLO

Perché il diritto di famiglia deve interessare una impresa familiare?

L’«impresa familiare» è un istituto giuridico introdotto nel Codice Civile dall’art. 69 della L. 19 maggio 1975, n. 151 e disciplinato dall’art. 230-bis, secondo cui: «Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato».

In passato, il lavoro dei familiari riceveva una tutela limitata, venendo considerato come prestazione a titolo gratuito: l’esistenza di un rapporto di lavoro non era presunta, ma doveva essere provata al fine di dimostrare il diritto alla retribuzione.

Con la nascita dell’impresa familiare è stato introdotto nel nostro ordinamento il riconoscimento, in capo al familiare che collabora nell’impresa, dei principali diritti economici:

  • –  mantenimento;
  • –  partecipazione agli utili in proporzione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato e a una quota dei beni acquistati con gli utili stessi che, invece di essere distribuiti, vengono reinvestiti;
  • –  incrementi aziendali, anche in ordine all’avviamento e sempre in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.Il coniuge, il parente o l’affine che lavorano nell’impresa familiare hanno anche poteri decisionali sulle scelte di maggiore importanza. Infatti, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., «Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa». A tal proposito occorre specificare che, ai fini del calcolo della maggioranza, i voti dei partecipanti all’impresa hanno tutti lo stesso valore e non esistono quote. Per coloro che non hanno la piena capacità di agire il voto è espresso da chi esercita la potestà su di essi.

Attraverso l’introduzione l’art. 230-bis c.c., in un’autonoma sezione del capo dedicato ai rapporti patrimoniali della famiglia, il legislatore con la Riforma del 1975 è intervenuto a disciplinare un fenomeno largamente diffuso nella realtà delle imprese, soprattutto di piccole dimensioni.

Il legislatore non ha inteso disciplinare un nuovo tipo di impresa, bensì apprestare tutela al familiare che offre il suo contributo all’attività economica di un congiunto. La scelta è che l’impresa non costituisce l’oggetto della regolazione, ma il presupposto per l’applicazione della norma di cui all’art. 230 bis c.c.. L’inciso iniziale è chiara testimonianza dell’intento di salvaguardare l’autonomia negoziale, sicché la relativa disciplina è destinata a trovare applicazione solo in via suppletiva laddove familiare e imprenditore anche per facta concludentia non abbiano provveduto a disciplinare la prestazione di lavoro.

Tale impostazione è del resto propria dell’intera disciplina dei rapporti patrimoniali della famiglia, la cui norma d’apertura rivela anch’essa una chiara natura suppletiva (art. 159 c.c.).

Non può negarsi che i vincoli affettivi implichino sempre più spesso l’emersione di interessi patrimoniali, la regolamentazione dei quali ben può avvenire mediante il ricorso al contratto quale strumento di composizione di conflitti in ordine a siffatti interesse.

Attribuendo ai protagonisti della vicenda lavorativa, ancorché legati da vincolo di coniugio, parentela o affinità, il potere di autoregolamentazione secondo i modelli normalmente adottati al fine di disciplinare le molteplici forme di collaborazione che possono caratterizzare l’attività d’impresa, il legislatore conferma il rilievo che assume lo svolgimento di ogni attività depauperante e la conseguente necessità che essa riceva riconoscimento come valore di scambio (il che può avvenire per effetto di specifico accordo delle parti o, in mancanza, mediante l’applicazione della norma di cui all’art. 230-bis c.c.).

Il fenomeno dell’impresa familiare, sebbene ricorrente nella realtà imprenditoriale italiana, raramente vede i familiari, che non abbiano fatto uso dell’autonomia negoziale per indirizzarsi verso schemi differenti di regolamentazione del rapporto, invocare l’art. 230-bis c.c. per disciplinare l’esplicazione del medesimo. Il vincolo affettivo sovrasta sovente la giuridicità del rapporto, sicché la collaborazione prestata da un soggetto a favore di un familiare imprenditore il più delle volte risulta permeata in modo  preponderante dall’affectio e, per questo motivo, rimane nella sostanza sfornita della tutela prevista dalla norma. E, invero, la disciplina dell’impresa familiare viene per lo più invocata all’esito di litigi tra familiari, in particolare successivamente all’insorgere della crisi coniugale.

La Legge Cirinnà, con l’art. 1, comma 46, ha introdotto l’art. 230-ter, che disciplina i «Diritti del convivente» e stabilisce quanto segue: «Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato».

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